OGNI MURO E' UNA PORTA
Teste basse, sguardi assenti, corpi che si muovono per forza d’inerzia…
Spesso fra la gente, per strada, si incontrano volti anonimi, sguardi che passano in rassegna ciò che si offre alla loro vista in modo passivo, lasciando che le immagini degli oggetti si lascino captare da loro, quasi come se fossero le cose a dover fluire verso gli occhi e penetrarvi. Una volta giunte lì le immagini dovrebbero continuare a fluire e fluire, sino a biforcarsi in una danza di emozioni che va a sollecitare mente e cuore. E invece no. Oggi purtroppo non è più così, o almeno, il più delle volte questo non accade.
Potremmo stare a raccontarci la storiella de “la nostra è una vita frenetica” che non è del tutto falsa, non lo nego, ma ciò che realmente ci caratterizza nell’approcciarci all’”altro da noi” è una totale assenza d’interesse. Non lo dico in modo pretestuoso, cerco solo di mettere nero su bianco quello che è un aspetto amaro ma innegabile della società in cui viviamo.
Si cerca di non farlo venire a galla, come del resto si cerca di farlo con tutto ciò che ci è scomodo, ciò che ci da preoccupazioni o arreca danni, ma è un dato di fatto : la noncuranza dilagante è come un morbo, un’epidemia che non intacca solo le persone , ma tutto ciò che ci circonda.
È triste pensare che nel quotidiano persino nelle cose più banali, ognuno pensi a coltivare il proprio orticello, a difenderlo da ciò che gli è esterno, senza nemmeno valutare se la portata di quel qualcosa di estraneo sarebbe benefica o meno. Ognuno pensa al sé, alla sopravvivenza dell’io, in modo egoistico si pensa a “realizzarsi” nel proprio piccolo, si punta sulla carriera, una vita decorosa, si spera nella propria salute…..ma il vero “realizzarsi” non dovrebbe intendersi come formarsi una propria personalità, crescere dal punto di vista delle esperienze, grazie all’interazione con gli altri?
La società apparentemente si sta aprendo al progresso, l’uomo, invece, sta regredendo all’ “ homo homini lupus” del filosofo britannico Hobbes, del XVII secolo : ognuno vede nel prossimo un nemico, qualcuno da danneggiare se non si vuole essere danneggiati.
Mi fa strano pensare che il nostro modo di agire oggi sia più ottuso di quello appartenuto ad alcuni antichi : sto pensando al concetto di “humanitas” terenziano : in quanto uomo, tutto ciò che appartiene alla natura umana non mi è estraneo. E oggi invece parrebbe proprio il contrario :in quanto uomo, singolo, individuo mi estraneo dall’umanità tutta, per la mia salvaguardia.
Invece, non c’è cosa più bella di tentare di sondare l’anima delle persone: la nostra in primo luogo, ma anche e soprattutto quella degli altri, che può portare una ventata di vita nuova nella nostra esperienza personale. Pertanto perché non tornare a considerarci tesori la cui mappa è rintracciabile tra i legami che si instaurano fra di noi ? Sensibili contatti tra individualità isolate che si incontrano possono conferire nuove sfumature al mondo che ci circonda, aprirci a nuovi orizzonti, trovare nuove motivazioni, rivalutare le proprie opinioni. Ricredersi, infatti, è motivo di crescita, non di vergogna. Dovremmo far fruttare le relazioni che intrecciamo con gli altri, renderle occasioni per riscoprire i veri valori. La bellezza della vita non la rintraccio guidando auto di grossa cilindrata, abitando in tenute di infiniti ettari o spargendo banconote di grosso taglio in ogni dove : imparo ad apprezzare la vita solo nel momento in cui capisco che ciò che di più prezioso esiste al mondo è qualcosa di invisibile, impalpabile, sfuggente :l’anima delle persone. E per anima intendo : il passato, le emozioni, i sentimenti , i segreti, che mai verranno pienamente alla luce, di una persona. Come farlo? Abbattendo i muri che ci auto poniamo, le barriere che ci portiamo dietro tutto il giorno, tutti i giorni per paura di lasciarci conoscere, quelle stesse recinzioni impenetrabili del nostro orticello, perché…..”Ogni muro è una porta” (Ralph Waldo Emerson), tutto sta nel saper trovare la chiave giusta per aprirla. Il mazzo di chiavi tra cui cercarla è formato dai punti in comune con l’altro, l’interesse che ci spinge all’incontro, la volontà di entrambi di rimettersi in discussione ;lo strumento a nostra disposizione per sbrogliare la matassa è la pazienza, la compartecipazione all’esperienze interiori dell’altro .
Come ho detto prima, però, la perdita d’interesse dell’uomo del XXI secolo non si limita a questo, bensì rende privo di significato tutto ciò che lo circonda. Se le cose vengono fatte “tanto per farle” o perché si sente l’obbligo di portarle avanti, inevitabilmente verranno fatte in uno stato di totale apatia per tutto ciò con cui entriamo in contatto. Intendo “apatia” nel vero senso del termine di “assenza di pathos, di emozione” e non lo facciamo con intenzione, è solo che ci sarebbe da stupirsi se si riuscisse a trovare motivazione forte, determinante anche in ciò che non ci coinvolge, non sollecita il nostro ben che minimo interesse…
Sarebbe auspicabile una riscoperta delle nostre vere passioni, come motori delle nostre azioni, una rilettura del modo alla luce del piacere per ciò che si fa, un riassaporare le cose con gli occhi stupefatti dei bambini… tutto questo sta agli antipodi dell’utopia, sarebbe attuabile se solo ci si lasciasse trasportare col pensiero dal significato al quale le cose rimandano. Dietro ogni oggetto c’è una storia…magari non ne conosciamo la provenienza, ma conosciamo di certo la storia che noi abbiamo costruito con quell’oggetto, che sta scritta nei ricordi. Pertanto basterebbe non negare i ricordi, sarebbe come rinnegare se stessi, bensì richiamarli alla memoria, perché l’importanza di ciò che ci circonda va oltre il visibile. I ricordi sono solo una parte degli infiniti rimandi a cui la realtà che ci circonda può rinviare…l’aspetto allettante è che ad ognuno di noi è dato di coglierne solo alcuni: i punti di vista non solo sono soggettivi, ma soprattutto sono personali, nel senso che le cose che vediamo le rendiamo vive instillando in loro gocce di noi.
Elisa
Spesso fra la gente, per strada, si incontrano volti anonimi, sguardi che passano in rassegna ciò che si offre alla loro vista in modo passivo, lasciando che le immagini degli oggetti si lascino captare da loro, quasi come se fossero le cose a dover fluire verso gli occhi e penetrarvi. Una volta giunte lì le immagini dovrebbero continuare a fluire e fluire, sino a biforcarsi in una danza di emozioni che va a sollecitare mente e cuore. E invece no. Oggi purtroppo non è più così, o almeno, il più delle volte questo non accade.
Potremmo stare a raccontarci la storiella de “la nostra è una vita frenetica” che non è del tutto falsa, non lo nego, ma ciò che realmente ci caratterizza nell’approcciarci all’”altro da noi” è una totale assenza d’interesse. Non lo dico in modo pretestuoso, cerco solo di mettere nero su bianco quello che è un aspetto amaro ma innegabile della società in cui viviamo.
Si cerca di non farlo venire a galla, come del resto si cerca di farlo con tutto ciò che ci è scomodo, ciò che ci da preoccupazioni o arreca danni, ma è un dato di fatto : la noncuranza dilagante è come un morbo, un’epidemia che non intacca solo le persone , ma tutto ciò che ci circonda.
È triste pensare che nel quotidiano persino nelle cose più banali, ognuno pensi a coltivare il proprio orticello, a difenderlo da ciò che gli è esterno, senza nemmeno valutare se la portata di quel qualcosa di estraneo sarebbe benefica o meno. Ognuno pensa al sé, alla sopravvivenza dell’io, in modo egoistico si pensa a “realizzarsi” nel proprio piccolo, si punta sulla carriera, una vita decorosa, si spera nella propria salute…..ma il vero “realizzarsi” non dovrebbe intendersi come formarsi una propria personalità, crescere dal punto di vista delle esperienze, grazie all’interazione con gli altri?
La società apparentemente si sta aprendo al progresso, l’uomo, invece, sta regredendo all’ “ homo homini lupus” del filosofo britannico Hobbes, del XVII secolo : ognuno vede nel prossimo un nemico, qualcuno da danneggiare se non si vuole essere danneggiati.
Mi fa strano pensare che il nostro modo di agire oggi sia più ottuso di quello appartenuto ad alcuni antichi : sto pensando al concetto di “humanitas” terenziano : in quanto uomo, tutto ciò che appartiene alla natura umana non mi è estraneo. E oggi invece parrebbe proprio il contrario :in quanto uomo, singolo, individuo mi estraneo dall’umanità tutta, per la mia salvaguardia.
Invece, non c’è cosa più bella di tentare di sondare l’anima delle persone: la nostra in primo luogo, ma anche e soprattutto quella degli altri, che può portare una ventata di vita nuova nella nostra esperienza personale. Pertanto perché non tornare a considerarci tesori la cui mappa è rintracciabile tra i legami che si instaurano fra di noi ? Sensibili contatti tra individualità isolate che si incontrano possono conferire nuove sfumature al mondo che ci circonda, aprirci a nuovi orizzonti, trovare nuove motivazioni, rivalutare le proprie opinioni. Ricredersi, infatti, è motivo di crescita, non di vergogna. Dovremmo far fruttare le relazioni che intrecciamo con gli altri, renderle occasioni per riscoprire i veri valori. La bellezza della vita non la rintraccio guidando auto di grossa cilindrata, abitando in tenute di infiniti ettari o spargendo banconote di grosso taglio in ogni dove : imparo ad apprezzare la vita solo nel momento in cui capisco che ciò che di più prezioso esiste al mondo è qualcosa di invisibile, impalpabile, sfuggente :l’anima delle persone. E per anima intendo : il passato, le emozioni, i sentimenti , i segreti, che mai verranno pienamente alla luce, di una persona. Come farlo? Abbattendo i muri che ci auto poniamo, le barriere che ci portiamo dietro tutto il giorno, tutti i giorni per paura di lasciarci conoscere, quelle stesse recinzioni impenetrabili del nostro orticello, perché…..”Ogni muro è una porta” (Ralph Waldo Emerson), tutto sta nel saper trovare la chiave giusta per aprirla. Il mazzo di chiavi tra cui cercarla è formato dai punti in comune con l’altro, l’interesse che ci spinge all’incontro, la volontà di entrambi di rimettersi in discussione ;lo strumento a nostra disposizione per sbrogliare la matassa è la pazienza, la compartecipazione all’esperienze interiori dell’altro .
Come ho detto prima, però, la perdita d’interesse dell’uomo del XXI secolo non si limita a questo, bensì rende privo di significato tutto ciò che lo circonda. Se le cose vengono fatte “tanto per farle” o perché si sente l’obbligo di portarle avanti, inevitabilmente verranno fatte in uno stato di totale apatia per tutto ciò con cui entriamo in contatto. Intendo “apatia” nel vero senso del termine di “assenza di pathos, di emozione” e non lo facciamo con intenzione, è solo che ci sarebbe da stupirsi se si riuscisse a trovare motivazione forte, determinante anche in ciò che non ci coinvolge, non sollecita il nostro ben che minimo interesse…
Sarebbe auspicabile una riscoperta delle nostre vere passioni, come motori delle nostre azioni, una rilettura del modo alla luce del piacere per ciò che si fa, un riassaporare le cose con gli occhi stupefatti dei bambini… tutto questo sta agli antipodi dell’utopia, sarebbe attuabile se solo ci si lasciasse trasportare col pensiero dal significato al quale le cose rimandano. Dietro ogni oggetto c’è una storia…magari non ne conosciamo la provenienza, ma conosciamo di certo la storia che noi abbiamo costruito con quell’oggetto, che sta scritta nei ricordi. Pertanto basterebbe non negare i ricordi, sarebbe come rinnegare se stessi, bensì richiamarli alla memoria, perché l’importanza di ciò che ci circonda va oltre il visibile. I ricordi sono solo una parte degli infiniti rimandi a cui la realtà che ci circonda può rinviare…l’aspetto allettante è che ad ognuno di noi è dato di coglierne solo alcuni: i punti di vista non solo sono soggettivi, ma soprattutto sono personali, nel senso che le cose che vediamo le rendiamo vive instillando in loro gocce di noi.
Elisa
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