IDEALI DISARMANTI
La Siria è una sabbiosa goccia a metà fra Occidente e Oriente. Ricca di siti archeologici, disseminati tra la sabbia dorata di rosa, era meta dei commerci carovanieri di un tempo. Gioielli come Aleppo e Palmira, conosciuta come la Sposa del Deserto, impreziosiscono di cultura e tradizione i paesaggi naturali peculiari di questa terra, i quali sfumano dal deserto ai campi fertili nei pressi del mare sino ai fitti boschi di montagna. D’altro canto Damasco, la capitale, è una grande metropoli. La Siria è percorsa dal Tigri e dall’Eufrate, per questo può dirsi la culla della civiltà. Qui viene conservato il primo alfabeto della storia, l’alfabeto ugaritico, ed è inoltre il paese in cui si parla l’arabo più vicino a quello letterario. Grande impulso ha avuto la letteratura nei secoli, cantanti e poeti hanno scritto versi di una profondità e di una sensibilità tali che meriterebbero una trattazione a parte. L’artigianato, lavorato in modo certosino, è uno tra i punti di forza dell’economia locale. Per affrescare nella nostra mente i tratti peculiari di una cultura radicata nel passato, sulla scia della tavolozza resa sopra, basti pensare che l’archeologo francese André Parrot, che fu direttore del Louvre, arrivò a dire che “ogni persona civilizzata nel mondo deve ammettere di avere due patrie: quella in cui è nato e la Siria”.
L’altra preoccupante faccia della medaglia, però, ci riporta alla triste realtà di un Paese dilaniato dalla guerra civile, che dal 2011 vede i ribelli, oppositori al regime di Bašār Ḥāfiẓ al-Asad, combattere per ottenere almeno la speranza di un futuro migliore. Dove prima sorgevano palazzi, luoghi di culto, case, scuole e qualsiasi edificio comune, ora si accumulano le macerie, i cadaveri delle persone che con dedizione avevano costruito lì, mattone dopo mattone, il loro presente rivolti verso il futuro. Un futuro sporcato e saccheggiato dagli spari assordanti che scandiscono la vita di ogni giorno, per chi l’ha salva. Spari, botti, esplosioni che fanno da colonna sonora all’infanzia di molti bambini sotto gli occhi dei quali è stata abbattuta gran parte dell’asilo. Pochi disegni, appesi ad un muro di sogni infranti, è tutto ciò che rimane delle aule dove un tempo l’istruzione dava la speranza di una protezione per il domani. Le innumerevoli vittime dei massacri all’ordine del giorno sono per lo più civili, la cui unica colpa è quella di essere nati nel posto sbagliato al momento sbagliato e che spesso sono vittima non solo dei cecchini, ma anche dei pregiudizi di chi, ignorando la realtà dei fatti, fa di tutta l’erba un fascio. Tutti vengono definiti “terroristi”, “animali” che non meritano né la compassione, né tanto meno un aiuto, quasi la guerra se la fossero andata a cercare.
Se la democrazia sembra essere ancora un lontano miraggio, a molte persone, non necessariamente siriane, stanno a cuore le sorti di questo Paese e, in particolar modo, di chi lo popola. Proprio in questi giorni, infatti, il video di due nostre connazionali, Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, che da mesi sono state sequestrate da appartenenti ai qaedisti di Jabhat al-Nusra ha fatto il giro del Web. Si tratta di due fra i tanti volontari che ogni anno, da diverse parti del mondo, scendono in campo attivamente per proteggere, nel limite del possibile, i civili. Donne, uomini, bambini, anziani, i più deboli vedono in loro un ancora cui aggrapparsi poco prima di aver toccato il fondo, di aver perso ogni possibile futuro.
Le due ventenni, nel video diffuso, chiedono che il governo italiano intervenga al più presto per la loro liberazione da una situazione di evidente pericolo. Ciò che ha fatto e fa tutt’ora parlare e porre punti interrogativi è il fatto che mesi fa le giovani erano state immortalate in uno scatto in cui tenevano fra le mani un manifesto scritto a mano in cui ringraziavano degli attivisti che paiono portare il nome degli stessi che ora le hanno prigioniere.
Prevedibili, ma comunque sconcertanti, i commenti di persone incompetenti in materia che ovviamente si dichiarano contrarie al pagamento di riscatti, in quanto andrebbero a finanziare il riarmo dei ribelli, ma soprattutto salverebbero le samaritane innamorate del kalashnikov, come sono state definite dai più bonari e che in quanto “amiche dei terroristi” dovrebbero salvarsi da sole.
Quando si leggono certi commenti che definiscono le nostre volontarie “bambine in cerca di visibilità” che in quanto tali devono smettere di “rompere i coglioni” ecc. ebbene, certe domande, come minimo, bisogna porsele. Gruppi sui social network creati appositamente per inveire contro di loro, fotomontaggi offensivi e senza pudore si prendono gioco di due ragazze, perché non hanno avuto paura di varcare le frontiere di un Paese messo a fuoco e fiamme.
Quando non si è coinvolti in prima persona è molto facile puntare il dito, sputare veleno per il mero gusto di farlo. Non ha alcun senso insinuare che certe iniziative bisognerebbe attuarle in Italia, o che partire con la voglia di cambiare le cose sia un semplice capriccio. Fatto sta che, invece che stare a impoltronirsi giudicando, c’è chi si batte per la causa di chi sta peggio di noi, perché in guerra civile, perché convive con la morte e la distruzione e non si adopera per migliorare la propria vita, ma per garantirsela. Saranno ragazze giovani, ma molto motivate e questo è ben diverso dall’essere delle sprovvedute che vogliono dare nell’occhio, visto che stanno rischiando la vita.
Com’è possibile che molti travisino le cose a tal punto? Facile darsene conto se solo si pensa alle invettive rivolte agli immigrati, alle dita puntate contro i barconi, senza che gli stessi autori delle piazzate si diano conto delle condizioni per cui gli stessi fuggono dalle loro Patrie e delle condizioni precarie che vivono anche qui in Italia, dove spesso e volentieri vengono sfruttati. Non siamo tornati indietro di secoli, no, è solo che tanti meccanismi sono rimasti tali e quali, ma non se ne parla.
L’unica cosa che bisognerebbe realmente fare è sperare che le due ragazze riescano a tornare a casa al più presto, non per chiudersi dietro un muro di paura, ma per collaborare con Organizzazioni ben più esperte di quanto non possano essere loro e seguire il sogno di riportare quelle persone alla libertà, alla serena quotidianità, che per loro sarebbe il più grande dei traguardi.
Essere giovani non è sinonimo di essere superficiali, insinuare che ragazze animate da un grande senso di solidarietà e giustizia si siano spinte anche oltre le loro capacità solo per scattarsi delle foto originali dà i brividi a noi, immaginiamoci a chi ha avuto modo di confrontarsi direttamente con loro. Struggenti le parole del padre di Vanessa, che già dallo scorso agosto aveva rotto il silenzio, rilasciando interviste contro le malelingue che cercavano di sporcare ingiustamente i sani intenti della figlia e dell’amica Greta. “Chi ha fatto Vanessa e Greta prigioniere dovrebbe ricordare cos’erano lì a fare. Volevano il bene e sarebbe un dramma se qualcuno le ripagasse col male. Non servirebbe a niente. L’ho sentito ripetere a mia figlia mille volte: non è con le armi che si vince una guerra, una guerra si vince con grandi ideali e grandi gesti”.
Attentati come quello di ieri a Parigi impauriscono chiunque, sarebbe ipocrita dire il contrario, ma non per questo la difesa sta nel trovare un capro espiatorio sparando a zero su tutto e tutti. Travisa chi denigra le nostre volontarie, travisa chi pensa che straniero significhi sbagliato, travisa chi dice che la colpa è dell’etnia, travisa chi dice che da imputare è invece la religione, o forse tutte le religioni, chissà. Forse è più difficile affrontare la realtà, visto che le cose non stanno come tanti le tratteggiano. Bisognerebbe cominciare a capire che sull’altra sponda del Mediterraneo ci sono persone come noi, che si dicono estranee e contrarie agli atti di fondamentalisti che strumentalizzano la religione per farsene uno scudo dietro cui legittimare assalti da esaltati. È vero che anche tra di noi potrebbero nascondersi degli esaltati, ma in quel “tra di noi” non ci sono solo i musulmani o gli extracomunitari in genere, ci sono tutti coloro che al di là della bandiera che portano o della fede che professano mirano a colpire la libertà. L’attacco a Charlie Hebdo è stato un gesto efferato nei confronti della libertà d’espressione, scomoda a molti, perché colpisce più delle armi. Di tutta risposta non dobbiamo incolpare a destra e a manca, ma continuare più di prima a scrivere, denunciare, testimoniare, fino alla nausea, fino a che le cose non cambieranno e per cambiarle servono determinazione e coraggio.
Per concludere, ecco cosa diceva Stéphane Charbonnier, noto come Charb, direttore del settimanale satirico francese:
«Non ho paura delle rappresaglie. Non ho figli, non ho una moglie, non ho un’auto, non ho debiti. Forse potrà suonare un po’ pomposo, ma preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio»
Elisa
L’altra preoccupante faccia della medaglia, però, ci riporta alla triste realtà di un Paese dilaniato dalla guerra civile, che dal 2011 vede i ribelli, oppositori al regime di Bašār Ḥāfiẓ al-Asad, combattere per ottenere almeno la speranza di un futuro migliore. Dove prima sorgevano palazzi, luoghi di culto, case, scuole e qualsiasi edificio comune, ora si accumulano le macerie, i cadaveri delle persone che con dedizione avevano costruito lì, mattone dopo mattone, il loro presente rivolti verso il futuro. Un futuro sporcato e saccheggiato dagli spari assordanti che scandiscono la vita di ogni giorno, per chi l’ha salva. Spari, botti, esplosioni che fanno da colonna sonora all’infanzia di molti bambini sotto gli occhi dei quali è stata abbattuta gran parte dell’asilo. Pochi disegni, appesi ad un muro di sogni infranti, è tutto ciò che rimane delle aule dove un tempo l’istruzione dava la speranza di una protezione per il domani. Le innumerevoli vittime dei massacri all’ordine del giorno sono per lo più civili, la cui unica colpa è quella di essere nati nel posto sbagliato al momento sbagliato e che spesso sono vittima non solo dei cecchini, ma anche dei pregiudizi di chi, ignorando la realtà dei fatti, fa di tutta l’erba un fascio. Tutti vengono definiti “terroristi”, “animali” che non meritano né la compassione, né tanto meno un aiuto, quasi la guerra se la fossero andata a cercare.
Se la democrazia sembra essere ancora un lontano miraggio, a molte persone, non necessariamente siriane, stanno a cuore le sorti di questo Paese e, in particolar modo, di chi lo popola. Proprio in questi giorni, infatti, il video di due nostre connazionali, Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, che da mesi sono state sequestrate da appartenenti ai qaedisti di Jabhat al-Nusra ha fatto il giro del Web. Si tratta di due fra i tanti volontari che ogni anno, da diverse parti del mondo, scendono in campo attivamente per proteggere, nel limite del possibile, i civili. Donne, uomini, bambini, anziani, i più deboli vedono in loro un ancora cui aggrapparsi poco prima di aver toccato il fondo, di aver perso ogni possibile futuro.
Le due ventenni, nel video diffuso, chiedono che il governo italiano intervenga al più presto per la loro liberazione da una situazione di evidente pericolo. Ciò che ha fatto e fa tutt’ora parlare e porre punti interrogativi è il fatto che mesi fa le giovani erano state immortalate in uno scatto in cui tenevano fra le mani un manifesto scritto a mano in cui ringraziavano degli attivisti che paiono portare il nome degli stessi che ora le hanno prigioniere.
Prevedibili, ma comunque sconcertanti, i commenti di persone incompetenti in materia che ovviamente si dichiarano contrarie al pagamento di riscatti, in quanto andrebbero a finanziare il riarmo dei ribelli, ma soprattutto salverebbero le samaritane innamorate del kalashnikov, come sono state definite dai più bonari e che in quanto “amiche dei terroristi” dovrebbero salvarsi da sole.
Quando si leggono certi commenti che definiscono le nostre volontarie “bambine in cerca di visibilità” che in quanto tali devono smettere di “rompere i coglioni” ecc. ebbene, certe domande, come minimo, bisogna porsele. Gruppi sui social network creati appositamente per inveire contro di loro, fotomontaggi offensivi e senza pudore si prendono gioco di due ragazze, perché non hanno avuto paura di varcare le frontiere di un Paese messo a fuoco e fiamme.
Quando non si è coinvolti in prima persona è molto facile puntare il dito, sputare veleno per il mero gusto di farlo. Non ha alcun senso insinuare che certe iniziative bisognerebbe attuarle in Italia, o che partire con la voglia di cambiare le cose sia un semplice capriccio. Fatto sta che, invece che stare a impoltronirsi giudicando, c’è chi si batte per la causa di chi sta peggio di noi, perché in guerra civile, perché convive con la morte e la distruzione e non si adopera per migliorare la propria vita, ma per garantirsela. Saranno ragazze giovani, ma molto motivate e questo è ben diverso dall’essere delle sprovvedute che vogliono dare nell’occhio, visto che stanno rischiando la vita.
Com’è possibile che molti travisino le cose a tal punto? Facile darsene conto se solo si pensa alle invettive rivolte agli immigrati, alle dita puntate contro i barconi, senza che gli stessi autori delle piazzate si diano conto delle condizioni per cui gli stessi fuggono dalle loro Patrie e delle condizioni precarie che vivono anche qui in Italia, dove spesso e volentieri vengono sfruttati. Non siamo tornati indietro di secoli, no, è solo che tanti meccanismi sono rimasti tali e quali, ma non se ne parla.
L’unica cosa che bisognerebbe realmente fare è sperare che le due ragazze riescano a tornare a casa al più presto, non per chiudersi dietro un muro di paura, ma per collaborare con Organizzazioni ben più esperte di quanto non possano essere loro e seguire il sogno di riportare quelle persone alla libertà, alla serena quotidianità, che per loro sarebbe il più grande dei traguardi.
Essere giovani non è sinonimo di essere superficiali, insinuare che ragazze animate da un grande senso di solidarietà e giustizia si siano spinte anche oltre le loro capacità solo per scattarsi delle foto originali dà i brividi a noi, immaginiamoci a chi ha avuto modo di confrontarsi direttamente con loro. Struggenti le parole del padre di Vanessa, che già dallo scorso agosto aveva rotto il silenzio, rilasciando interviste contro le malelingue che cercavano di sporcare ingiustamente i sani intenti della figlia e dell’amica Greta. “Chi ha fatto Vanessa e Greta prigioniere dovrebbe ricordare cos’erano lì a fare. Volevano il bene e sarebbe un dramma se qualcuno le ripagasse col male. Non servirebbe a niente. L’ho sentito ripetere a mia figlia mille volte: non è con le armi che si vince una guerra, una guerra si vince con grandi ideali e grandi gesti”.
Attentati come quello di ieri a Parigi impauriscono chiunque, sarebbe ipocrita dire il contrario, ma non per questo la difesa sta nel trovare un capro espiatorio sparando a zero su tutto e tutti. Travisa chi denigra le nostre volontarie, travisa chi pensa che straniero significhi sbagliato, travisa chi dice che la colpa è dell’etnia, travisa chi dice che da imputare è invece la religione, o forse tutte le religioni, chissà. Forse è più difficile affrontare la realtà, visto che le cose non stanno come tanti le tratteggiano. Bisognerebbe cominciare a capire che sull’altra sponda del Mediterraneo ci sono persone come noi, che si dicono estranee e contrarie agli atti di fondamentalisti che strumentalizzano la religione per farsene uno scudo dietro cui legittimare assalti da esaltati. È vero che anche tra di noi potrebbero nascondersi degli esaltati, ma in quel “tra di noi” non ci sono solo i musulmani o gli extracomunitari in genere, ci sono tutti coloro che al di là della bandiera che portano o della fede che professano mirano a colpire la libertà. L’attacco a Charlie Hebdo è stato un gesto efferato nei confronti della libertà d’espressione, scomoda a molti, perché colpisce più delle armi. Di tutta risposta non dobbiamo incolpare a destra e a manca, ma continuare più di prima a scrivere, denunciare, testimoniare, fino alla nausea, fino a che le cose non cambieranno e per cambiarle servono determinazione e coraggio.
Per concludere, ecco cosa diceva Stéphane Charbonnier, noto come Charb, direttore del settimanale satirico francese:
«Non ho paura delle rappresaglie. Non ho figli, non ho una moglie, non ho un’auto, non ho debiti. Forse potrà suonare un po’ pomposo, ma preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio»
Elisa
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